PARLARE IN PUBBLICO

 
     

I.

come si pianifica - come si imposta - come si scrive una relazione destinata ad essere proferita davanti ad un pubblico
 

 

I. INTRODUZIONE

 

 

I.2.4. DISPOSITIO

I.1. LINEE STORICHE

 

I.2.5. ELOCUTIO

I.2.1. PARTIZIONE ORATORIA

 

I.2.6. LE FIGURE RETORICHE

I.2.2. LINGUA SCRITTA E ORALE

 

I.3. ESOTISMI

I.2.3. INVENTIO

 

I.4. CONSIGLI PRATICI

 

 

 

 

 

 

II.

la comunicazione interpersonale
 

 

II. INTRODUZIONE
 

 

II.1.4. SAPER ASCOLTARE
II.1.1. LA LINGUA PARLATA
 

 

II.2.1. LE FORME DELLA COMUNICAZIONE
II.1.2. L'IMPROVVISAZIONE
 

 

II.2.2 CONSIGLI E STRATAGEMMI
II.1.3. LE VARIETA' DELLA LINGUA
 

 

BIBLIOGRAFIA
 

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Gaetano Vergara, 1985-99 © All right reserved

 

 

 

I. INTRODUZIONE

La presente relazione è indirizzata ai partecipanti allo stage Come parlare in pubblico e si propone di offrire loro una base teorica e un testo di riferimento sulla retorica classica e sulla sua funzionalità attuale.

Nella prima parte sarà tratteggiato un breve excursus sulle origini della retorica, per poi passare a definire l'oggetto del nostro discorso:

Nella seconda parte, invece, saranno presentate una serie di metodiche e consigli pratici volti a pianificare, impostare e scrivere una relazione destinata ad essere proferita davanti ad un pubblico.

La decisione di aprire un intervento ad un corso pratico di retorica con una introduzione storica nasce dal fatto che molti dei consigli, precetti e metodi individuati dalla scuola retorica classica sono tuttora validi e universalmente applicati, seppur mascherati con una terminologia nuova di ascendenza anglo-americana.

Oltretutto, offrire al futuro relatore il senso di una continuità con una tradizione millenaria, potrà contribuire a superare certe diffidenze nei confronti dell'arte retorica e delle sue costruzioni. E infatti, come vedremo, preparare un testo oratorio non significa fare delle acrobazie senza rete, quanto piuttosto poggiarsi su solide griglie da cui prendere le mosse per scrivere una relazione efficace, pertinente all'oggetto del nostro discorso, chiara e attraente.

 

I.1. LINEE STORICHE

Secondo le informazioni tramandateci da Aristotele, la Retorica nacque in Sicilia, a Siracusa, nel V sec. a.C. - quando, in seguito alla caduta del tiranno Trasibùlo, furono intentate molte cause per rivendicare le proprietà confiscate. Si sviluppò così l'eloquenza giudiziaria e si cominciò a sentire il bisogno di un'arte che ne stabilisse i precetti. A questo ufficio adempirono due Siracusani, Còrace e Tisia, che scrissero i primi due manuali di eloquenza; dopodiché la retorica divenne prima retaggio ateniese e poi romano.

In pratica questi primi relatori giudiziari spinti dall'interesse e da esigenze prevalentemente pragmatiche cominciarono a rendersi conto che nel parlare c'erano alcune cose utili e altre inutili, e le misero in rilievo perché le prime fossero imitate, le seconde evitate, e anch'essi aggiunsero analogamente talune norme che sono state consolidate (QUINTILIANO, III,2)

Il brano che avete appena letto è tratto dal De institutione oratoria di Quintiliano, un'opera in 12 libri scritta tra il 93 e il 96 d.C. e destinata alla formazione dell'oratore perfetto. Si tratta senza dubbio del trattato di retorica più completo e più chiaro di tutta l'antichità; una sorta di summa dell'eloquenza imprescindibile anche per l'oratore moderno in quanto comprende al tempo stesso una storia, una metodologia, una serie di consigli pratici e una deontologia della retorica. Pertanto da qui in avanti useremo spesso il DE INSTITUTIONE di Quintiliano come libro di riferimento e fonte di citazioni per il nostro discorso.

Per di più Quintiliano segna anche la fine del periodo aureo della retorica, cinque secoli di eloquenza in cui si è venuta delineando la teoria e la prassi del parlare in pubblico attraverso le scoperte e le formalizzazioni dei sofisti, degli oratori attici e dei filosofi e retori ellenistici e romani.

Dopo questo periodo - dopo i Lisia, i Demostene e i Cicerone - comincia la decadenza e lo scredito per la retorica, e insieme una gran confusione sul suo senso e valore.

L'atteggiamento più esasperatamente critico si è avuto nel secolo scorso, quando l'individualismo romantico si è scagliato contro quelli che considerava gli artifici e le costrizioni della retorica. E sulla scorta del pensiero romantico, i nostri tempi hanno dato al termine "retorica" un significato odioso, perché l'hanno fatta consistere nel solo involucro, nella parte, cioè, esteriore e deteriore, e non in quello di vivo e di vitale che essa rappresentò per le generazioni antiche e può ancora rappresentare per quelle moderne.

Per noi moderni il termine "retorico" si richiama ad un modo di parlare o di scrivere ampolloso e risonante, enfatico e sostanzialmente vuoto, un modo, insomma, privo o povero di impegno intellettuale, civile o morale. Ma una tale concezione non fa che testimoniare quanto la retorica sia stata intesa poco e male nei nostri tempi.

In realtà la retorica classica costituiva un sistema di leggi convenzionali che una volta ammesse ed assimilate potevano aiutare il relatore dandogli libertà di movimento all'interno del sistema. Lungi dall'ostacolare l'originalità o il talento, le costrizioni formali fornivano l'occasione dei più raffinati effetti, ed offrivano quella griglia da cui prendere le mosse di cui abbiamo parlato all'inizio del nostro intervento.

In fondo, vista in questa prospettiva, la retorica non è molto differente dai sistemi convenzionali che regolano le arti figurative, la musica o la letteratura. Si pensi alle leggi della prospettiva nella pittura rinascimentale, a quelle dell'armonia nella musica da Bach a Wagner, a quelle della metrica nella poesia classica o del montaggio nel cinema. Nessuno mai si sognerebbe di accusare l'endecasillabo di aver limitato le possibilità espressive di un Dante o di un Petrarca. E allora perché mai dovremmo imputare alla retorica di limitare la passione, i sentimenti, le idee o la sincerità del parlante?

Sarebbe il momento di tornare a considerare la retorica come un sistema, un insieme di regole che fanno quella che i latini chiamavano la bene dicendi scientia, la scienza del dire bene, del parlare correttamente. Ciò anche perché dare alla retorica un connotato negativo significa confondere l'involucro con il suo potenziale contenuto. In realtà essa, in quanto sistema di regole e precetti, non è che un mezzo - flessibile, subdolo e pericoloso quanto si vuole, ma pur sempre e solo un mezzo.

Leggiamo a tal proposito un ulteriore brano di Quintiliano pieno di fervore retorico contro i denigratori della retorica:

Suvvia disprezziamo i cibi: spesso hanno provocato gravi malattie; non mettiamo mai piede sotto una soffitta: qualche volta essa sprofonda sulla testa degli inquilini; non si fabbrichino spade per i soldati: anche i banditi potrebbero servirsene! Chi non sa che fuoco ed acqua, senza i quali non c'è vita /.../ talvolta nuocciono anch'essi? /.../ Io credo che i fondatori di città non avrebbero altrimenti ottenuto di far convivere tribù, prima disperse, in ordinate forme civili, se non le avessero convinte con sapienti discorsi; né i legislatori sarebbero riusciti, senza il potere della parola, a rendere i cittadini strettamente ossequienti alle leggi. Anzi gli stessi insegnamenti etici, pur se naturalmente pieni di decoro si rilevano più efficaci quando sono illuminati, nella loro sostanza dallo splendore della forma. Perciò, anche se le armi della facondia possono essere valide sia nella direzione buona che nella contraria, non è tuttavia giusto che si consideri un male ciò di cui è lecito servirsi a buon fine. (Quintiliano, II,16)

Come avete avuto modo di osservare, Quintiliano tiene molto a sostenere un utilizzo etico della facondia e un uso probo dell'arte del parlare bene.

A noi, invece, in questo contesto importa poco soffermarci sul valore morale della retorica. Quello che più interessa è piuttosto ribadire il suo carattere di codice convenzionale atto a far scegliere, organizzare e proferire fatti e argomenti nel modo più corretto, chiaro ed efficace possibile. Che poi tale codice possa essere utilizzato a fini costruttivi o distruttivi è questione attinente al campo dell'etica più che della retorica. Il mezzo linguistico in quanto tale è e resta neutro, indipendentemente dall'uso che se ne può fare.

Da qui in avanti, dunque, analizzeremo alcune delle regole che sottostanno a tale codice, in modo che esse possano essere attive anche per l'oratore dei nostri tempi. La retorica classica resterà ancora un punto di riferimento per il nostro discorso. Da essa partiremo per indicare metodi, tecniche e consigli pratici. Ma, naturalmente, non tutti i suggerimenti dei classici potranno essere riproposti fedelmente per un utilizzo moderno; proprio perché la retorica è un sistema convenzionale e, in quanto tale, soggetto ai mutamenti della storia.

Passiamo dunque a vedere quali possono essere i suggerimenti degli antichi che conservano un loro valore pragmatico, offrendo quelle solide griglie di cui stiamo parlando dall'inizio di questa relazione.

 

I.2.1. PARTIZIONE ORATORIA

Una prima indicazione ci viene dalla divisione della retorica in cinque parti le quali corrispondono ad altrettante fasi che il relatore deve seguire per pianificare, organizzare, redigere, memorizzare e portare in pubblico la sua relazione. Secondo la terminologia classica formalizzata da Cicerone, la partizione oratoria sarebbe la seguente:

1 INVENTIO

2 DISPOSITIO

3 ELOCUTIO

4 MEMORIA

5 ACTIO o PRONUNTIATIO

Di queste cinque parti della retorica, le prime tre attengono alla fase di preparazione e composizione del discorso; le ultime due alla fase di esposizione, quando il relatore è pronto per portare in pubblico il frutto dei suoi studi.

In particolare il termine INVENTIO sta per Invenzione e corrisponde alla fase di ricerca degli argomenti a partire da un tema dato; la DISPOSITIO sta per Disposizione e si esplica nell'esposizione ordinata dei frutti dell'Inventio; e l'ELOCUTIO, o Elocuzione, ha per scopo di dar forma e stile ai diversi ele-menti del discorso, avvalendosi di figure o ornamenti - quelli che i latini chiamavano i colores rethorici.

Quanto, invece, alla MEMORIA e all'ACTIO, la prima si riferisce alla tecnica dell'arte mnemonica, la seconda al modo di porgere una relazione regolando voce, gesti e portamento in base alle esigenze della dissertazione e del contesto in cui essa viene enunciata.

Nel corso della nostra relazione, ci occuperemo solo delle prime tre parti della partizione oratoria: INVENZIONE, DISPOSIZIONE ed ELOCUZIONE. Vedremo, pertanto, come si pianifica come si imposta e come si scrive una relazione destinata ad essere proferita davanti ad un pubblico.

Tuttavia, teniamo a ribadire che un oratore può definirsi completo solo quando è in grado di dominare tutte e cinque le parti della retorica. Ciò perché un testo oratorio, per quanto perfetto, resta lettera morta se non si possiede la capacità di porgerlo al pubblico. E per porgere al pubblico un testo, sono indispensabili Memoria, Actio e tutta una serie di tecniche e capacità psicologiche atte a superare la paura del palcoscenico.

Altrimenti il nostro non è il mestiere dei relatori; possia-mo tutt'al più fare i logògrafi, i preparatori di discorsi altrui, quelli che oggi si chiamano gli speechwriters: persone abili nella scrittura che stilano discorsi per politici, papi, presidenti e presentatori televisivi. Ce ne sono stati di famosissimi e abilissimi: da Lisia che preparava orazioni giuridiche nell'Atene del V sec. a.C., a Theodore Sorensen - celebre speechwriter di John Fitzgerald Kennedy - o ai gesuiti di Civiltà Cattolica che collaborano alla stesura dei sermoni pontificali.

Tuttavia, un logografo non è un relatore. Mentre un relatore per essere completo deve essere anche logografo di se stesso: deve essere in grado di prepararsi autonomamente una relazione scritta destinata ad essere detta in pubblico con la sua propria voce.

 

I.2.2. IL LINGUAGGIO DEL RELATORE TRA LINGUA SCRITTA E LINGUA ORALE

Ma vediamo, dunque, da dove nasce questa esigenza di prepararsi un discorso scritto, anziché improvvisare direttamente davanti al pubblico come facciamo normalmente nel nostro parlare quotidiano.

Per definire e capire tale esigenza di preparazione scritta, dovremo innanzitutto soffermarci sulle differenze tra la lingua scritta e la lingua orale. Questo perché, come dimostreremo più avanti, la lingua dei relatori costituisce una sorta di territorio intermedio tra i due poli lingua scritta e lingua orale, assumendo connotati dall'una e dall'altra.

Leggiamo in proposito le opinioni della linguista Wanda d'Addio Colosimo sulle differenze tra il modo scritto e il modo orale:

La lingua orale, come si esplica nella conversazione corrente della vita quotidiana, differisce sostanzialmente da quella scritta per il fatto che essa si attua in contesti di situazione dove uno o più interlocutori partecipano al discorso. Tale partecipazione rende possibile il riferimento mediante gesti ad elementi della situazione stessa e permette al parlante di avvalersi del costante feedback dell'interlocutore (cenni di assenso, mimica facciale, gesti). Inoltre, le conoscenze e le presupposizioni che parlante ed ascoltatore hanno in comune possono essere date per scontate ed essere quindi implicite nel discorso.

Ebbene, tutti questi fattori rendono la lingua orale quanto mai ellittica. l'ascolto di una registrazione dal vivo non potrà che confermare tale impressione: tolto dal suo contesto, cioè privato degli aspetti situazionali che integrano la comunicazione, il discorso risulta incompleto, ambiguo e talvolta oscuro.

Se poi ne vedremo soltanto la trascrizione l'ambiguità crescerà poiché mancheranno altri importanti supporti per la comunicazione orale quali l'intonazione , essa stessa portatrice di valori semantici, il tono della voce, le pause, le esitazioni e così via. L'impressione generale che si ricava da una trascrizione fedele di una conversazione orale è infatti quella di un discorso verbalmente poco articolato, cioè di un discorso spezzato, con frasi spesso ambigue ed incomplete tra le quali non si ravvisa un'immediata connessione. [...]

Nella lingua scritta le condizioni della comunicazione sono invece sostanzialmente diverse. Non vi sono infatti interlocutori presenti e quindi chi scrive non riceve alcun segnale che possa dirgli come il suo messaggio viene ricevuto. [...] Per lo stesso fatto di esplicarsi in forma grafica, il discorso deve fare a meno dei valori semantici ed affettivi espressi dall'intonazione e dai toni della voce, anche se talvolta si tenta di rendere gli stessi effetti mediante [...] segni grafici come il corsivo o i caratteri maiuscoli, il punto esclamativo, i puntini di sospensione e altri espedienti del genere.

Se la lingua scritta deve dunque portare da sola tutto il peso della comunicazione, ogni nesso logico dovrà essere reso esplicito. Ne risulterà una più rigorosa organizzazione sintattica del discorso ed una maggiore precisione e formalità nell'uso del lessico.

Lo stesso carattere di permanenza della pagina, di contro alla transitorietà dell'espressione orale, impone a chi scrive una maggiore responsabilità che si traduce naturalmente in una maggiore accuratezza dell'espressione..

Proviamo a schematizzare:

Caratteri generali della lingua orale

- Feedback dell'interlocutore attraverso cenni di assenso, mimica facciale e gesti, i quali testimoniano l'effetto del nostro discorso sull'ascoltatore.

- Alto grado di probabilità di conoscere il nostro interlocutore e il suo bagaglio culturale. Il che ci permette di dare per scontate alcune cose, le quali anche se non dette saranno comunque percepite da chi ci ascolta.

- Uso di supporti non verbali che aiutano la comunicazione: p.e. intonazione, pause, gestualità e mimica.

- Linguaggio ellittico e/o incompleto, proprio perché integrato dai supporti non verbali e dall'attività ricettiva dell'interlocutore.

Aggiungiamo alle caratteristiche riscontrate dalla d'Addio Colosimo il fatto che la comunicazione orale è

- un processo in costante divenire, nel senso che diciamo le cose mentre le pensiamo e, pertanto, non è possibile tornare sulle nostre parole per correggere e organizzare quanto già detto (così come facciamo quando scriviamo).

In quanto tale la lingua orale è anche

- piena di incertezze e ripetizioni non funzionali al messaggio, e frammista di pause ed esclamazioni che danno il tempo al parlante di riorganizzare il discorso.

Infine la lingua orale

- procede per frasi brevi nelle quali l'uso di coordinate supera di gran lunga l'uso di subordinate

- ed è mutabile a seconda delle circostanze, del contesto e del feedback dell'interlocutore.

 

Passiamo ora ai

Caratteri generali della lingua scritta

- la lingua scritta è più rigorosa nell'organizzazione sintattica;

- più precisa e formale nella scelta del lessico;

- più strutturata e ripulita da ripetizioni non funzionali

al messaggio;

- priva di ambiguità, incertezze e frasi ellittiche.

Ciò perché una volta stilato il nostro discorso non possiamo avere un riscontro nel nostro interlocutore per aggiustare o chiarificare gli argomenti che risultano difficili o oscuri. Inoltre, scrivendo un testo non ci è dato sapere fino in fondo a chi ci rivolgiamo, chi sono i nostri interlocutori e quale è il loro bagaglio culturale. Pertanto è doveroso usare una chiarezza espositiva ed un lessico formale e preciso che consenta di fare arrivare il nostro messaggio ad un pubblico quanto più vasto.

Infine, ricordiamo

- il carattere di permanenza della pagina scritta rispetto alla transitorietà della lingua orale ed il fatto che

- la lingua scritta presenta più frasi subordinate e costruzioni più complesse, anche perché il lettore può tornare sulle frasi più difficili e rileggerle per indagarne il senso; mentre nella comunicazione orale l'interlocutore o riceve il messaggio in prima istanza o non lo riceve affatto - a meno che non si sia peritato di registrare il discorso per poi passarlo alla moviola.

Chiusa questa lunga parentesi su lingua orale e lingua scritta, passiamo ad esaminare il tipo di comunicazione che più ci interessa: il linguaggio del relatore. Vedremo, così, come esso assuma alcuni contorni e caratteri del modo scritto ed alcuni del modo orale.

Innanzitutto

- il linguaggio del relatore si rivolge quasi sempre ad un pubblico diversificato e più o meno indeterminato. Infatti non ci è dato di sapere quasi mai chi sono tutti i nostri interlocutori: qual è il loro bagaglio culturale, a che ceto sociale o professionale appartengono, quali sono le loro aspettative e preferenze.

Inoltre,

- un relatore deve possedere una accuratezza di esposizione ed una precisione formale pari a quella della lingua scritta. Non si possono dare per scontate cose che non necessariamente saranno percepite dalla totalità del nostro pubblico.

- Il linguaggio, pertanto, non deve essere né ambiguo né ellittico; a meno che non si voglia giocare artatamente sulle corde dell'ambiguità e dell'oscurità.

Inoltre per evitare di suscitare la monotonia, l'incomprensione e l'insofferenza del pubblico

- un buon relatore deve evitare le ripetizioni, le lunghe pause di riflessione, le incertezze ed i salti bruschi di palo in frasca tipici della comunicazione orale corrente.

Per rispondere a tutte queste prescrizioni, il linguaggio del relatore deve necessariamente essere pianificato e predisposto prima di intraprendere l'esposizione delle nostre locuzioni. Ciò perché, come abbiamo visto, il tipo di linguaggio utilizzato nella comunicazione corrente risulta essere troppo improvvisato e incerto per i bisogni di un relatore. E non potrebbe essere diversamente, dato che parlare è un processo immediato, nel quale agiamo di impulso più che di riflessione.

Al contrario, una relazione deve corrispondere a quello che Bembo definiva nel XVI secolo il "parlare pensatamente": un modo di parlare ordinato, coerente e strutturato.

Un modo di parlare, dunque, che presuppone una pianificazione ed una preparazione scritta - a meno che non siamo dei talenti naturali o degli improvvisatori nati, capaci di improntare senza preparazione una relazione che risponda ai caratteri dell'accuratezza e della precisione formale. Ma in questo caso ogni consiglio o regola risulterebbe essere inutile, perché al cospetto di un tale patrimonio naturale qualsiasi insegnamento sarebbe vano o ridondante.

Passiamo ora ad osservare in che cosa il linguaggio del relatore si assimila ai caratteri della lingua orale.

Innanzitutto

- anche il relatore, come un qualsiasi parlante, può utilizzare i messaggi del proprio corpo, il tono della voce, l'intonazione, la gestualità e la propria mimica facciale.

Inoltre

- egli può utilizzare il feedback che gli proviene dal suo pubblico per adattare il proprio discorso alle circostanze ed al contesto.

Infine, anche per un relatore

- è preferibile usare frasi brevi in cui le coordinate prevalgono sulle frasi organizzate in subordinate complesse

- ed è auspicabile non riempire le frasi di troppi dettagli.

Se i periodi sono troppo lunghi, è buona norma spezzarli. Di conseguenza, quando si sta preparando una relazione orale sarebbero da evitare periodi di questo tipo:

Quando Filippo di Macedonia, salito al trono nel 359, dopo aver conquistato Anfipoli, Fidna e Metone, avanzò fino all'Ellesponto minacciando i traffici commerciali degli Ateniesi, Demo-stene, che fu uno dei più grandi oratori di tutti i tempi, gli si scagliò contro con violenza e implacabilità, pronunciando, in tempi diversi, le quattro Filippiche e le tre Olintiache.

Caso mai bisognerebbe scrivere:

Filippo di Macedonia salì al trono nel 359 e conquistò Anfipoli, Fidna e Metone. Dopodiché avanzò fino all'Ellesponto minacciando i traffici commerciali ateniesi. A questo punto, il grande oratore attico Demostene gli si scagliò [contro con vio-lenza e implacabilità], pronunciando le quattro Filippiche e le tre Olintiache.

Insomma, bisogna sempre tenere presente che il pubblico che ascolta non ha la possibilità di rileggere le costruzioni più complesse e rischia di perdersi nelle nostre acrobazie da scri-vente.

Infine ricordiamo che se è vero che

verba volant, scripta manent

le parole del relatore, per quanto verba, non sono destinate a volare come le parole della comunicazione corrente. Se una relazione è andata a buon fine, essa è destinata a rimanere nella mente degli ascoltatori; quando non viene perfino immortalata in appunti, trascrizioni e registrazioni. Ciò impone al relatore lo stesso senso della responsabilità e la stessa accuratezza dell'espressione che si richiede ad un qualsiasi scrivente.

 

I.2.3. INVENTIO

Data così per certa l'esigenza di preparare per iscritto le nostre locuzioni, cominciamo a vedere come esse debbano essere pianificate, impostate e redatte.

La prima fase è, naturalmente, quella della ricerca degli argomenti e della preparazione dei materiali: quella che abbiamo chiamato INVENTIO seguendo la terminologia classica. La stessa etimologia della parola si richiama all'atto del trovare e alla capacità inventiva del relatore, dal momento che il termine "inventio" deriva dal verbo latino "invenire" che traduce per l'appunto l'italiano "trovare".

Si tratta difatti proprio di trovare fatti e idee partendo dalla stesura grezza di note e appunti su un argomento dato. In questa fase il relatore annoterà in maniera non organica tutto quello che gli viene in mente sulla materia in esame, aggiungendo eventualmente esempi, aneddoti, testimonianze e citazioni. In alcuni casi potrà essere di aiuto l'uso di manuali, della letteratura sull'argomento e di speciali dizionari che raccolgono motti, proverbi, citazioni e frasi celebri.

In pratica, in questa fase bisogna soprattutto liberare la propria immaginazione e cercare stimoli per arrivare a definire il materiale e i punti chiave della nostra futura relazione. Tutto questo, però, andrebbe fatto tenendo presente alcune restrizioni di campo, come il contesto, la situazione e l'ambiente

a cui è destinato il nostro lavoro. A tal proposito Quintiliano,

rivolgendosi agli oratori forensi, affermava

Consiglio che chi sta per parlare osservi attentamente che cosa, davanti a chi, per chi, contro chi, in che tempo, in che luogo, in quale situazione, di quale atmosfera tenendo conto debba pronunziare l'orazione: quali sentimenti è verosimile che il giudice nutra prima che cominciamo e subito dopo, che cosa desideriamo o cerchiamo di scongiurare. (Quintiliano, IV,1)

D'altro canto, già i primi retori attivi in Grecia nel V sec. a.C. usavano impostare e pianificare le loro locuzioni partendo da uno schema base formato da domande di questo tipo:

Quid?

Quis?

Ubi?

Cur?

Quomodo?

Quando?

Quibus auxiliis?

Si tratta, come si vede, di una serie di quesiti che funzionavano come caselle vuote che il relatore avrebbe dovuto riempire prima di intraprendere la stesura del suo testo base.

A più di duemila anni di distanza, tale strategia può risultare ancora utile per la preparazione di una relazione che risponda ai caratteri della chiarezza e della pertinenza al tema proposto. Una relazione, insomma, che abbia ben definiti contenuti, scopi, oggetto e modi da impiegare in una determinata circostanza, in un determinato contesto ed al cospetto di un interlocutore o di un gruppo di interlocutori determinati.

Non a caso il giornalismo odierno è in gran parte impostato su domande del tutto similari: quelle che vengono definite negli studi anglosassoni come Wh-questions:

What? (Che cosa?)

Who? (Chi?)

Where? (Dove?)

Why? (Perché?)

How? (Come?)

When? (Quando)

La nostra proposta è quella di usare uno schema di questo tipo come binario e canovaccio-guida per la stesura delle nostre future relazioni. Ci accorgeremo così che partire da una griglia prestabilita non vuol dire necessariamente costringere la creatività del relatore. Uno schema, usato in modo mirato, può diventare uno stimolo e può aiutarci a restringere il nostro campo di indagine, evitandoci perdite di tempo ed inutili digressioni. Di conseguenza, se definiremo bene il nostro argomento ed il contesto in cui operiamo prima di cominciare a scrivere, saremo più veloci chiari e precisi nella stesura dei nostri testi.

Ad esempio, sapere in anticipo la professione del nostro interlocutore può aiutarci a prevedere le sue aspettative ed il suo bagaglio culturale, così che poi possiamo sintonizzarci più facilmente sulle sue linee d'onda culturali.

Perfino conoscere la provenienza dell'interlocutore può essere un elemento di aiuto per il relatore. Infatti, se parlo ad un pubblico che so di una determinata origine geografica, potrò anche permettermi parole dialettali e riferimenti di ambito regionale. Mentre la cosa è naturalmente da evitare di fronte ad un pubblico di provenienza mista o non ben definita. Per esempio, in un contesto napoletano posso anche permettermi di dire "Il '48 rappresentò un momento di bagarìa collettiva", dove il termine "bagarìa" sarà giustamente interpretato nella sua accezione di "confusione euforica, baruffa, subbuglio"; mentre per un ascoltatore non napoletano la cosa sarà pressoché incomprensibile -

a meno che il mio interlocutore non sia così pronto da risalire al termine francese bagarre, ma io, come relatore, non posso pretendere dal pubblico un tale lavoro interpretativo.

Ciò significa anche che tanto più mi trovo di fronte ad un pubblico misto o ad un pubblico del quale ignoro il grado culturale, la provenienza ed il ceto sociale, tanto più sarò tenuto ad usare termini universalmente comprensibili e riferimenti di carattere generale.

Insomma, dovrò evitare di fare come quelle persone che rispondono alla richiesta di indicazioni stradali con riferimenti legati al proprio ambito ristretto e non certo conoscibili dall'estraneo che chiede informazioni. Quante volte ci è capitato di ascoltare indicazioni del tipo: "Arrivi alla piazza. Segua per il corso fino al negozio di Tizio. Giri alla strada della scuola Caio. Arrivi fino al mio barbiere e cento metri più avanti tro-verà la banca". Invece di usare riferimenti più generali e universalmente comprensibili come "Prosegua dritto fino al semaforo. Svolti a destra e poi al terzo incrocio a sinistra".

Questo per dire che sarebbe auspicabile sapere sempre a chi ci si rivolge; e nel caso che ciò non sia possibile, bisognerebbe evitare dettagli poco conosciuti dalla generalità delle persone e terminologie specialistiche. O quanto meno i termini più ostici dovrebbero sempre essere accompagnati da sinonimi, definizioni o spiegazioni.

La cosa sembra essere del tutto ovvia e scontata. Eppure quante volte abbiamo sentito i nostri governanti parlare il politichese, quello strano linguaggio fatto di convergenze parallele, partiti trasversali, Ghini di Tacco e "impeachments". Ma qui subentra anche la malafede degli azzeccagarbugli che parlano per non essere capiti, confondere le acque e impressionare l'uditorio (Petrolini, nelle vesti di Nerone e del Gran Dottore, docet).

 

I.2.4. DISPOSITIO

Ma torniamo all'esame delle partizioni oratorie classiche e passiamo all'analisi della Disposizione delle varie parti di un brano oratorio.

La DISPOSITIO consiste nell'esposizione ordinata dei frutti dell'Inventio ed è mirata alla costruzione di un discorso armonico, scorrevole e adeguato al tema. Per avere effetto, la Dispositio presuppone la creazione di un piano ordinato che funzionerà come canovaccio-guida per la stesura delle nostre relazioni.

Come a chi innalza una costruzione non basta accumulare pietre e materiali ed altri arnesi utili all'edilizia, se non vi si aggiunga la valentia nel disporli e nel collocarli, così nell'eloquenza la copia di argomenti, per quanto piena sia, si ridurrà a un cumulo informe, se la disposizione non li legherà in un tutto armonioso e organico. /.../ Allo stesso modo, non si ha una statua, per fuse che siano tutte le sue parti, se esse non siano state poste ciascuna al punto giusto. /.../

A me pare che abbiano ragione quanti affermano che la natura poggi sull'ordine, al cui confondersi tutto è destinato a perire. Così, un discorso che manchi di questo pregio dovrà necessariamente andar balzelloni e correre alla deriva senza timoniere, essere spesso slegato, spesso ripetere e spesso sorvolare, come chi vaga di notte per luoghi sconosciuti; e, senza un piano che comprenda inizio e fine, si affiderà più al caso che a un preciso progetto. (Quintiliano, VI,1)

Da un punto di vista pratico, nella fase della Dispositio si concatenano le parti di un'orazione cercando di conferire al discorso un andamento ordinato, logico e consequenziale. In questo modo si rendono le relazioni più facilmente memorizzabi-li; in quanto risulta più agevole fissare nella memoria un dis-sertazione con un andamento ordinato, in cui le varie sezioni si concatenano in modo logico e proporzionato. A tal proposito è opportuno esercitarsi sull'uso di quelle parole che funzionano da nessi logici tra un periodo e l'altro, come ad esempio "comunque", "ciò nondimeno", "pertanto", "d'altra parte", "di conseguenza", "a tal proposito" e così di seguito.

Secondo lo schema classico della Dispositio, la prima parte di una relazione è costituita da un esordio (in latino exordium) con il quale il relatore cerca di conciliarsi l'uditorio (captatio benevolentiae) e annuncia il piano della sua argomentazione (partitio).

All'"exordium" seguono una "narratio", in cui si riportano semplicemente i fatti; una "confermatio", nella quale vengono esposti gli argomenti dell'oratore e confutati quelli dell'avversario e, infine, un "epilogus", che ricapitola le varie tappe e mira a commuovere il pubblico.

L'inizio di una relazione merita sempre una particolare attenzione, in quanto dovrebbe catturare l'attenzione dell'udito-rio e giustificare il perché gliela state chiedendo.

Tra gli antichi precetti rimane valido quello che consiglia di non farsi sorprendere nell'esordio ad impiegare termini poco in uso, traslati troppo audaci, arcaismi e licenze poetiche, perché ancora non abbiamo preso posto nell'animo di chi ascolta e la sua mente è tutta rivolta a sorvegliare il nostro comportamento: questa libertà di espressioni verrà tollerata, solo quando gli animi, ormai dalla nostra parte, si saranno accalorati.

(Quintiliano, IV,1)

Inoltre, l'esordio deve rispondere alla funzione di motivare il pubblico all'ascolto ed accrescere il suo interesse attraverso poche linee schematiche che devono dare un'idea del nostro punto di partenza, del percorso che intendiamo seguire e di dove vo-gliamo andare a parare. Si tratta, insomma, di tracciare una specie di mappa stradale che renda più chiaro quanto viene detto e "ristori l'ascoltatore fissando un termine preciso alle singole parti, esattamente come ai viandanti toglie molta stanchezza la vista delle pietre miliari" (Quintiliano, IV,5). Naturalmente, un buon esordio deve essere scritto in modo semplice e coinciso, per spingere il pubblico ad ascoltarci con attenzione e senza diffidenza.

Infine, è importante che il passaggio dall'esordio alla trattazione vera e propria non sia attuato in maniera brusca o artificiale.

Il partito migliore è da una parte, non piombare improvvisamente sull'esposizione, dall'altra passarvi in maniera non oscura. Se, poi, seguirà un'esposizione più lunga e complessa, sarà d'uopo prepararvi il giudice, come assai spesso fece Cicerone: "Mi rifarò in questo esordio, volto a chiarire il fatto, un po' più indietro: cosa che, o giudici, vi prego di tollerare di buon grado; perché, conosciute le premesse, assai più facilmente comprenderete le conclusioni". (Quintiliano, IV,2)

Ma oltre ad una proporzionata disposizione delle parti, una buona relazione deve contenere un armonico collegamento delle frasi all'interno dei periodi e delle parole all'interno delle frasi.

Spesso si tratta solo di una questione di orecchio; e un buon orecchio può essere coltivato solo attraverso l'ascolto, la lettura e lo studio dei classici.

La natura è una maestra d'incredibile efficacia. Tutti, infatti, per un sentimento segreto, senza alcuna arte e senza alcuna riflessione, discernono quello che nelle arti e nei loro metodi ci sia di buono e di cattivo: e se giudicano bene d'un quadro o di una statua o di altre opere per cui la natura li ha fatti non intelligenti a giudicare, essi giudicano anche meglio

quando si tratti di giudicare di parole e di armonia e di voci; poiché si tratta qui di cose che appartengono al senso comune, di

un sentimento cioè che la natura non ha permesso che alcuno fosse completamente privo. Dunque, non solo tutti avvertono la maggiore o minore felicità nella disposizione delle parole ma addirittura il ritmo e l'armonia dei suoni. (CICERONE, De oratore, III 50-51).

 

I.2.5. ELOCUTIO

Per ELOCUZIONE si intende il modo di esprimersi, di conversare, di esporre il proprio pensiero, con riguardo all'efficacia e all'eleganza dell'espressione. In particolare nella retorica classica, l’Elocutio rappresenta l'elaborazione del discorso mediante la scelta ("electio") e la combinazione ("compositio") delle parole e delle varie figure del linguaggio atte a colorare, amplificare e rafforzare i nostri argomenti.

Attraverso l'elocutio il relatore dà forma ai diversi elementi del linguaggio. Pertanto, senza di essa l’inventiva di un autore sarebbe inefficace e inutile, come "una spada riposta e rimasta fissa entro la sua custodia" (Quintiliano, VIII,1).

La prima scelta da operare nell'ambito dell'elocuzione è quella tra linguaggio referenziale e linguaggio figurato. Leggiamo in proposito un brano di Umberto Eco:

Per linguaggio referenziale intendo un linguaggio in cui tutte le cose vengono chiamate col loro nome più comune, quello riconosciuto da tutti, che non si presta a equivoci. "Il treno Venezia-Milano" indica in modo referenziale quello che "La freccia della laguna" indica in modo figurato. Ma questo esempio vi dice che anche in una comunicazione "quotidiana" si può usare un linguaggio parzialmente figurato. Un saggio critico, un testo scientifico, dovrebbero essere auspicabilmente scritti in linguaggio referenziale (con tutti i termini ben definiti e univoci), ma può anche essere utile usare una metafora, una ironia, una litote. .

In pratica, l'utilità del linguaggio figurato nasce dal fatto che esso ci permette di conferire agli argomenti un carattere più incisivo e convincente, così da mantenere desta l'attenzione dei nostri interlocutori e rimanere impressi nelle loro menti.

Esaminiamo in proposito un brano tratto da una relazione di Gianni Agnelli, in cui l'avvocato affidava ad un gioco di parole un inquietante messaggio alla Confindustria:

"Il problema di oggi non è solo il costo del lavoro, ma quello di preservare il posto di lavoro. Attenzione dico 'posto' non 'costo' di lavoro".

Si tratta evidentemente di un invito a concentrare l'attenzione delle forze politiche e sindacali sui problemi della produzione e della disoccupazione, piuttosto che sulle lotte per gli aumenti salariali. Agnelli doveva essere fortemente interessato a diffondere quell'allarmante invito a tutto il paese. Gli serviva pertanto una formula sintetica ed efficace per essere ascoltato da un numero quanto più alto di italiani. E scovò quella formula attraverso il gioco di parole posto/costo (tecnicamente si tratta di una figura retorica chiamata paronomàsia). Difatti l'indomani, la gran parte dei giornali del paese titolava l'articolo sul discorso di Agnelli stralciando dal testo quel gioco di parole che fece in breve termine il giro dell'Italia.

In questo caso, il linguaggio figurato aveva corrisposto ai fini ed alle attese del parlante. Ma non sempre le aspettative riposte nelle figure retoriche hanno un esito così favorevole. Soprattutto quando non sono usate con la dovuta parsimonia e oculatezza. Attenzione, dunque, a non esagerare; altrimenti rischiamo di venire ricordati più per le nostre figure retoriche che per il contenuto della relazione. L’aroma giusto, usato con la pietanza giusta, dà sapore e carattere ai nostri piatti, l'uso indiscriminato e smodato di spezie di ogni provenienza e qualità li rende immangiabili. Allo stesso modo, disseminare le nostre relazioni di figure retoriche e giochi di parole di ogni tipo può generare l'effetto indesiderato di oscurare il senso del nostro discorso e creare enigmi contorti e incomprensibili. Oltre al fatto che un uso smodato di figure retoriche può far perdere ogni effetto in un tambureggiare di enfatizzazioni che si elidono a vicenda.

Abbiamo, dunque, massima cura dello stile, purché sappiamo, però, che nulla va fatto per amore delle parole, essendo state le parole scoperte per amore dei fatti ed essendo di esse le più degne di approvazione quelle che esprimono nel migliore dei modi il nostro stato d'animo e producono /.../ l'impressione da noi desiderata. Esse debbono assicurarci indubbiamente un discorso mirabile e piacevole, ma mirabile non al modo con cui ci meravi-gliamo dei prodigi, e piacevole per un diletto non vergognoso, ma congiunto con un lodevole decoro. (QUINTILIANO, VIII,1)

 

I.2.6. LE FIGURE RETORICHE

Soffermiamoci ora sull'analisi di alcune di quelle figure che usate in modo mirato possono ampliare le possibilità creative della nostra lingua e rendere i nostri discorsi meno banali e tediosi.

In generale, ogni figura rappresenta uno spostamento, una trasformazione o uno scarto di senso rispetto a quelli che sono gli usi consueti. Gli studiosi di retorica hanno elencato decine e decine di figure. Spesso, però, tante distinzioni sono servite più che altro a generare incertezza e confusione. Il quadro può essere reso più semplice e più chiaro, riconoscendo, al di là di differenze minute e pedanti, pochi schemi essenziali, che sono alla base praticamente di ogni trasformazione di senso.

In particolare, noi distingueremo quattro gruppi di figure:

- figure di parola, che investono i sensi delle singole parole;

- figure logiche, che investono i sensi di gruppi più ampi;

- figure di suono, che investono i suoni che compaiono nelle parole;

- figure di sintassi, che riguardano la costruzione della frase.

Le figure di parola più interessanti per il nostro discorso sono la similitudine, la metonimìa, la metafora e l'ossimoro.

La metonimìa consiste nel trasferimento di significato da una parola a un'altra in base a una relazione di contiguità spaziale, temporale o causale, usando, per esempio, il contenente per il contenuto ("bere una bottiglia"), la causa per l'effetto ("vivere del proprio lavoro"), il nome dell'autore per l'opera ("comprare un Picasso"), il simbolo per la cosa designata ("tener fede alla propria bandiera").

Un simpatico aneddoto incentrato su una metonimia ha per protagonista Eduardo De Filippo. In uno dei suoi tanti periodi di polemica contro il sistema radiotelevisivo italiano, Eduardo ricevette una telefonata da un dirigente RAI che esordì con un sonante "Pronto, qui è la televisione", e lui, di tutta risposta sbottò: "Un momento, mo' vi passo il frigorifero" - fingendo spudoratamente di non aver compreso la metonimia televisione/dirigente dell'ente televisivo di stato.

La metafora, invece, è basata su una similitudine sottintesa, in cui si istituisce un rapporto immediato tra due elementi, come appare evidente dall'enunciato "Andreotti è una volpe", che corrisponde a una condensazione della similitudine "Andreotti è astuto come una volpe".

In pratica la metafora si incentra su un rapporto analogico, per cui un vocabolo o una locuzione sono usati per esprimere un concetto diverso da quello che normalmente esprimono (come, per esempio, nelle espressioni "il timone dello stato", "la giungla d'asfalto", "il ruggire dei motori", "capelli di seta", "la sporca guerra"). Tra le varie figure retoriche, la metafora rappresenta una delle forze più attive della lingua, come mezzo di arricchimento non solo semantico e lessicale, ma anche stilistico ed espressivo (tú eres la mejor obra de arte / pasada en mano mía, / la obra maestra de mi fantasía / nacida sin artimañas ni artesanía).

L'ossimoro, infine, consiste nell'accostare nella medesima locuzione parole che esprimono concetti contrari (per esempio, "lucida follia", "silenzio eloquente", "sole nero"). Sembrerebbe una figura adatta solo al mondo della letteratura ("bruciano di neve", Quasimodo) e della canzone ("ghiaccio bollente", Tony Dallara); e invece se ne può fare uso anche nel campo del giorna-lismo e della politica.

Un caso emblematico è quel "convergenze parallele" coniato da Aldo Moro, per definire il suo progetto di far collaborare la Democrazia Cristiana con i partiti di sinistra (convergenza), tenendo ben distinte nello stesso tempo le proprie concezioni e la propria azione (parallelismo).

Vediamo ora di parlare brevemente dei tre tipi fondamentali di figura logica: la litote. l'iperbole e l'ironia.

La litote consiste nell'esprimere un concetto in forma attenuata, per lo più negando il concetto opposto, come quando si dice che una persona "non è priva di ingegno" (per dire che ha ingegno notevole). Noto fra gli altri è l'esempio manzoniano "Don

Abbondio /.../ non era nato con un cuor di leone".

La litote corrisponde all'esigenza di non impegnarsi troppo, di assumere un atteggiamento di moderazione e di prudenza. In certi casi, viene usata per alterare la visione delle cose: spesso, per esempio, i giornali e i gruppi politici ne fanno uso per distogliere l'attenzione dalla verità dei fatti, come avviene quando, di fronte a una secca sconfitta elettorale, si dice che "il partito ha retto bene alla prova". In questo modo, si vuole indubbiamente gettare del fumo negli occhi. Non dobbiamo dimenticare, però, che la litote è anche alla base delle relazioni sociali e della cortesia, ed è uno strumento indispensabile per il mantenimento dei buoni rapporti tra gli uomini.

Se per esempio, di fronte ad un nostro lavoro mal riuscito, ci dicessero chiaro e tondo che è una cosa pessima e indegna, noi probabilmente ci risentiremmo e troncheremmo ogni rapporto con il nostro interlocutore. Ecco allora che interviene l'espressione attenuata: "non è ben riuscito", "potrebbe andare meglio", "lascia un po' a desiderare". E noi ce ne andiamo un po' più contenti, anche se il nostro lavoro è e resta pessimo e indegno.

Un'altra figura di attenuazione, simile alla litote, è l'eufemismo. L'eufemismo consiste nel sostituire, per scrupolo religioso o morale o per riguardo sociale o per altro, l'espressione propria e usuale con altra di significato attenuato. I nostri discorsi sono pieni di eufemismi. Quando qualcuno muore, diciamo che "è passato a miglior vita"; dei morti in guerra diciamo che sono "caduti" e parliamo di mutande come di "maglieria intima". Anche qui, l'opportunità di usare tale figura dipende dalla circostanza comunicativa in cui ci troviamo a parlare; il più delle volte è la situazione stessa a sembrare così cruda e insostenibile da suggerire il bisogno di attenuare le nostre espressioni per renderle più accettabili.

L'iperbole nasce dal bisogno opposto, quello di esagerare, di esaltare al massimo le cose, a costo di alterare la realtà (Te quiero, te quiero, te quiero, / te quiero toda entera. / Te quiero, te quiero, te quiero / desde verano hasta primavera). Così nel linguaggio iperbolico il ragazzo intelligente diviene un genio e una grande stanza un campo di football.

Evidentemente ciò corrisponde, in molti casi, a un preciso vantaggio di chi usa la figura: il partito che riporta un discreto successo elettorale, potrebbe parlare di "esaltante vittoria", mentre l'insuccesso degli avversari viene presentato come una "catastrofe". Allo stesso modo il fruttivendolo dirà che la sua frutta "è fresca di giornata, anzi appena colta" e la ditta produttrice di cucine pubblicizzerà la sua merce come "la più amata dagli italiani".

L'ironia, infine, consiste nella dissimulazione del proprio pensiero con parole che significano il contrario di ciò che si vuole dire, con tono tuttavia che lascia intendere il vero sentimento. Come quando si esclama "Che mira!" rivolgendosi a chi manca di molto il bersaglio.

L'ironia può avere lo scopo di deridere, rimproverare bonariamente, correggere, o anche costatare l'esistenza di fatti spiacevoli o dolorosi.

Si tratta di un tipo di comunicazione che richiede nell'interlocutore la capacità di cogliere l'ambiguità sostanziale dell'enunciato. Altrimenti si corre il pericolo che si diffonda nel pubblico un messaggio di senso opposto a quello preventivato e desiderato dall'autore dell'ironia.

Un caso emblematico capitò allo scrittore inglese Daniel Defoe al principio del XVIII secolo. Defoe scrisse un pamphlet intitolato Il metodo più sbrigativo per farla finita coi dissidenti, in cui si scagliava contro l'atteggiamento dei conservatori anglicani suggerendo ironicamente provvedimenti persecutori radicali da adottare nei confronti dei cristiani non conformisti. Ma sia i conservatori che i dissidenti presero l'opera alla lettera, cosicché egli si trovò attaccato da ambedue le parti e, accusato di sedizione, fu imprigionato e messo alla gogna. Fu così che Defoe dovette imparare a proprie spese che l'ironia è un'arma pericolosa che va usata solo quando si ha consapevolezza delle capacità interpretative del nostri interlocutori.

Passiamo ora a quelle che abbiamo chiamato figure di suono. Si tratta di figure retoriche basate sul potere suggestivo ed evocativo dell'aspetto fonetico delle parole. Le figure più interessanti per il nostro discorso sono l'allitterazione, la paronomasia, l'anafora e l'anadiplòsi - tutte basate sulla ripetizione di suoni uguali o simili.

In particolare, l'allitterazione si verifica quando una stessa vocale o consonante o sillaba vengono ripetute all'inizio o all'interno di parole contigue (p.e. "bello e buono", "mimo, musica e movimento", "mi illumino di immenso"). Un primo effetto dell'allitterazione è quello di rendere l'espressione più piacevole e interessante: la ripetizione da una sensazione di armonia e di eleganza che ci colpisce favorevolmente, e ci permette di ricordare meglio la frase (Yo no vendo mi vida. / Mi vida me la tengo yo / o la regalo a Barbarita). Questo lo sanno benissimo i pubblicitari, così come coloro che coniano gli slogan politici - da "birra e sai cosa bevi" a "black is beautiful".

Con la paronomàsia, invece, si accostano due parole quasi identiche, generalmente per mettere in rilievo l'opposizione dei significati (p.e. "traduttore/traditore"; "gioia/noia"; "chi dice donna dice danno"). Si tratta, pertanto, di una allitterazione spinta ad un grado elevato.

La paronomasia è usata per ottenere effetti brillanti e attirare l'attenzione, come risulta evidente nell'esempio dell'avvocato Agnelli citato nel paragrafo precedente.

L'anafora e l'anadiplòsi, infine, consistono nel ripetere una parola o un gruppo di parole allo scopo di dare loro maggior rilievo (p.e. "è lui che ha fatto il danno; è lui che deve riparare" oppure "e lo rimproveri tu, tu che sei colpevole non meno di lui!" oppure "Llámame, ámame, llámame pronto / llámame, ámame, te estoy esperando, / ámame, ámame, quiéreme tanto: / la mitad de cuanto te estoy queriendo). Entrambe, quindi, sono usate spesso in contesti commossi, emotivi e drammatici, come nell'ambito delle arringhe giudiziarie e dei comizi.

Per concludere questa veloce rassegna sulle figure retoriche passiamo alla permutazione, unica tra le figure di sintassi ad avere un qualche valore per il nostro discorso.

La permutazione, detta anche iperbato, si ha quando viene alterato l'ordine consueto della frase. Per esempio "i problemi, sapremo affrontarli", invece del più corrente "sapremo affrontare i problemi". Ponendo all'inizio della frase una parola o un gruppo di parole che di solito dovrebbero essere poste all'interno o alla fine, si valorizza l'elemento spostato. La permutazione in definitiva agisce come il faro che, in teatro, illumina ora questa ora quella parte della scena, creando centri di interesse e zone significative più intense.

Chiudiamo questa panoramica sulle figure retoriche con tre avvertimenti:

- Non abusiamo. Le figure retoriche sono il sale del discorso, e come il sale mettono sete nell'ascoltatore. Ma se usate in maniera eccessiva risultano sgradevoli al palato.

- Non usiamo figure retoriche troppo complesse per i nostri interlocutori. Figure ambigue, oscure o semplicemente poco chiare possono veicolare un messaggio opposto a quello desiderato.

- Non spieghiamo le figure retoriche. Se si ritiene che il nostro lettore sia un idiota, non si usino figure retoriche, ma usarle spiegandole significa dare dell'idiota al lettore. (Umberto ECO, op. cit.)

 

I.3. Esotismi

Le figure retoriche, le citazioni e le parole di origine esotica hanno spesso un valore di scambio molto alto e contribuiscono a far alzare le quotazioni del parlante nel mercato della comunicazione. Ma attenzione a non inflazionare i discorsi con parole e espressioni poco chiare che possono rallentare o interrompere il livello di comprensione dei nostri interlocutori.

Oggi, in particolare, si è diffuso moltissimo l'uso indiscriminato di esotismi di origine anglo-americana, tutti quei budget offset target jet-set leaflet e compagnia cantante che sentiamo usare a proposito e a sproposito dalle persone più svariate e dai mezzi di comunicazione di massa. La cosa di per sé non ha nulla di negativo - almeno quando questi termini sono utilizzati con cognizione di causa, nei contesti appropriati e in mancanza di corrispondenti italiani di valore ed effetto omologo. Ma il fatto è che spesso gli esotismi, oltre ad essere usati in modi e situazioni improprie, sono pronunciati in maniera approssimativa o malamente italianizzati. Ciò denuncia nel parlante provincialismo culturale e superficialità. Pertanto il relatore prima di usare parole di origine straniera o di enunciare citazioni in lingua originale dovrebbe quanto meno controllarne il senso e la pronuncia su dizionari specializzati - altrimenti è meglio desistere ed affidarsi alle vie vecchie dell'italiano corrente.

Questo discorso vale anche per il latino che spesso viene reinventato in citazioni pseudo-colte che ignorano l'esistenza dei casi e la flessione dei verbi (così la storia può diventare "magistra vita" invece che "magistra vitae, e "homo homini lupus" si può trasformare in un mostruoso "homo hominis lupo").

In definitiva, l'uso improprio di esotismi, citazioni, figure retoriche e parole latine, sortisce lo spiacevole effetto boomerang di abbassare il tono di una relazione laddove si voleva innalzarlo. E il relatore ne esce penosamente ridicolizzato.

I.4. CONSIGLI PRATICI PER PREPARARE UNA RELAZIONE DESTINATA AD ESSERE PROFERITA IN PUBBLICO

 

 

II. INTRODUZIONE

Nel corso del presente intervento ci occuperemo degli scambi verbali interpersonali. Più specificamente, esamineremo i modi e le forme in cui si esplica la lingua parlata tra due o più persone inserite in una situazione pubblica.

Oltre che dei consigli dei classici, ci serviremo degli apporti contemporanei provenienti dalla sociolinguistica e dalla teoria delle comunicazioni.

L'intervento sarà articolato in due parti.

Nella prima parte si attuerà una riflessione sulla lingua parlata che terrà conto

  1.  
  2. dell'importanza dell'improvvisazione, come momento caratterizzante di ogni comunicazione orale non predisposta;
  3.  
  4. delle varietà della lingua nelle diverse situazioni e contesti;
  5.  
  6. dell'esigenza di rafforzare le capacità di ascolto e comprensione per chi voglia potenziare le proprie capacità comunicative.

Nella seconda parte, invece, verranno prese in esame diversi tipi di scambi comunicativi orali, dal colloquio al talk-show, e si concluderà con qualche suggerimento e con alcuni stratagemmi dialettici presi in prestito da Schopenhauer.

 

II.1.1. LA LINGUA PARLATA

Secondo un'indagine americana condotta nello scorso decennio, l'ascolto occupa il 46% del tempo dell'adulto, il parlare il 30%, il leggere il 15% e lo scrivere solo il 9%.

Ciò vuol dire che la maggior parte della nostra comunicazione verbale si esplica attraverso la lingua orale. Tuttavia, siamo tutti poco addestrati al compito di parlare e ascoltare in modo adeguato, corretto ed efficace. La stessa scuola si preoccupa molto dell'insegnamento dello scrivere, attraverso la pratica tradizionale del tema, ma trascura le più elementari situazioni comunicative della lingua parlata. Le forme orali nelle nostre classi si riducono alle spiegazioni unilaterali dei docenti ed al rituale dell'interrogazione, dove all'alunno è richiesta una mera ripetizione della spiegazione dell'insegnante o del testo studiato. Ciò, naturalmente, fatta salva la buona pace di quegli ottimi maestri che riescono veramente a instaurare una situazione dialettica nelle loro classi.

D'altronde, dal punto di vista educativo, la lingua orale presenta senza dubbio molte difficoltà. Per il suo uso più spontaneo, la parola detta ha un carattere meno stabile e meno soggetto a regole rigide rispetto al testo scritto. E proprio per questo risulta più imprevedibile e difficile da controllare.

Cionondimeno, riflettere sulla lingua parlata è un esercizio di indubbia utilità per chi voglia incrementare le proprie capacità di parlare in pubblico senza l'ausilio di un testo scritto precedentemente predisposto in tutti i suoi dettagli

 

II.1.2. L'IMPROVVISAZIONE

Un elemento di differenza sostanziale tra l'esposizione unilaterale di una relazione e uno scambio comunicativo interpersonale, sta nel fatto che nel corso degli scambi interpersonali diminuisce sensibilmente la possibilità di predisporsi alla comunicazione. Più le situazioni saranno spontanee e informali, più si imporrà l'esigenza di improvvisare, di trovare all'impronta le argomentazioni estemporanee adatte alla situazione comunicativa in cui ci troviamo a parlare.

In genere, quando parliamo in situazioni ordinarie e informali, il tempo disponibile per prepararci è minimo. Nelle nostre conversazioni quotidiane andiamo per lo più a ruota libera; e chi ha l'aria di essersi preparato le battute prima di parlare con la fidanzata, con il figlio o con il giornalaio fa una strana impressione o dà una penosa sensazione di insicurezza.

Diverso è il caso di colloqui formali, quando ci troviamo a parlare di lavoro o di affari in assemblee, studi o uffici. Qui predisporsi alle cose da discutere è lecito ed auspicabile. Qualche appunto scritto aiuta a risparmiare il tempo e ad evitare il rischio di tralasciare nel colloquio elementi rilevanti. Purtroppo, però, non sempre disponiamo del tempo o della possibilità di prepararci ai nostri interventi. Può capitare che nel corso di una riunione siamo improvvisamente invitati a dire la nostra, o che ascoltando una conferenza ci sembri importante prendere la parola sull'argomento. E allora ci toccherà improvvisare fondandoci sugli scarsi elementi a nostra disposizione.

Sono questi i casi che richiedono una particolare attenzione. Bisogna tenere bene in mente che saper improvvisare non significa dire qualunque cosa ci passi per la testa, o, come dicevano gli antichi, "quidquid in buccam venit", cioè "qualunque cosa ci passi per la bocca" - che è come dire parlare senza assicurarsi che il cervello sia collegato agli organi di fonazione. Saper improvvisare significa piuttosto riuscire ad esprimere prontamente il nostro pensiero ed in modo che risulti coerente e intellegibile per chiunque ci ascolti.

In ogni circostanza, bisogna prima pensare e organizzare le proprie idee e poi prendere la parola, cercando di essere chiari e sintetici. "Chi comincia senza sapere che dire e come dirlo, termina senza sapere ciò che ha detto". Meglio il silenzio. Piuttosto che un intervento delirante e inconcludente, meglio non prendere affatto la parola.

Ma può anche capitare che inaspettatamente qualcuno ci formuli delle domande cui non possiamo esimerci dal rispondere. Un caso emblematico sono le fila di quesiti che solitamente seguono l'esposizione di una conferenza o di una relazione. In questi casi è utile l'espediente di prendere tempo raccogliendo tutte le domande formulate, per poi dilungarsi su quelle su cui ci sentiamo più preparati. Inoltre, può essere di aiuto ripetere ciascuna domanda ad alta voce prima di rispondere. Ciò ci concede un po' di tempo per riflettere ed aiuta il pubblico a focalizzare la questione. E se poi avessimo bisogno di altro tempo, chiediamo di ripetere la domanda o di riformularla diversamente, ammettendo di non aver capito cosa ci è stato richiesto.

D'altro canto nelle situazioni pubbliche, come riunioni e assemblee, c'è quasi sempre la possibilità di riflettere sugli argomenti in discussione prima dell'incontro. E' una possibilità che non dobbiamo lasciarci scappare. Si tratta in pratica di prepararsi con modalità non dissimili da quelle che corrispondono alla partizione retorica che i latini denominavano INVENTIO. Si tratta di buttare giù idee e appunti immaginando quali potrebbero essere le cose più importanti da dire e tenendo conto del contesto, della situazione, degli scopi e dei destinatari del nostro intervento. Per farlo, si può stendere una scaletta, che potrà essere modificata nel corso degli interventi altrui. Se per esempio durante una riunione qualcuno avrà già trattato in modo soddisfacente un punto previsto dalla nostra scaletta, potremo facilmente depennarlo, annotandoci il nome di chi ci ha preceduto. Altri punti possono essere integrati tenendo conto dell'andamento generale e contingente della riunione.

In pratica, come nella commedia dell'arte o nel jazz, improvvisare il più delle volte corrisponde ad esprimersi a partire da un canovaccio dato. Uno dei primi storici della commedia dell'arte, Andrea Perrucci, parlava dell'improvvisazione come di un'impresa bellissima e pericolosa cui non "si devono porre se non persone idonee ed intendenti, e che sappiano che vuol dire regola di lingua, figure rettoriche, tropi e tutta l'arte rettorica, avendo da far all'improvviso ciò che premeditato fa il poeta" (A. Perrucci, Dell'arte rappresentativa premeditata e all'improvviso, Napoli, 1699, pp. 159-60).

Inoltre, il Perrucci consigliava gli attori di radunare i propri lavori "adatti a tutte le occasioni" in un "Cibaldone repertorio", in modo da far sembrare uscite all'improvviso parole preconfezionate ed adattate alla necessità contingente. Mutatis mutandis, anche nel campo degli scambi comunicativi, saper di retorica ed essere in grado di adattare al discorso frasi precotte, non può che essere di aiuto all'improvvisazione. Ma più ancora sarà fondamentale la capacità di cogliere al volo il tipo di lingua ed il lessico adeguato alla situazione comunicativa in cui ci troviamo a parlare ed alle persone che partecipano al colloquio.

 

II.1.3. LE VARIETA' DELLA LINGUA

Con un certo ingenuo ottimismo, Catone il Censore (234-149 a.C.) affermava "Rem tene, verba sequentur", "possiedi l'argomento, e le parole verranno da sé". In verità, le cose non stanno affatto così. Se così fosse, superato il fattore emotivo, saremmo tutti dei provetti oratori, almeno nei campi in cui possediamo l'argomento. E invece non basta possedere l'argomento (rem), bisogna anche trovare il modo più efficace e pertinente in cui dirlo, le parole (verba) adatte al contesto ed alle diverse circostanze comunicative.

Questo perché la lingua non è e non può essere un corpo unico e indifferenziato, sempre uguale per tutti e per tutte le circostanze. L'italiano che noi tutti utilizziamo non è che un codice comune dal quale attingiamo per i nostri discorsi. Il fatto che usiamo tutti la medesima lingua è assicurato dall'uso degli stessi suoni, le stesse regole sintattiche e, in buona misura, delle stesse parole. Ma dal codice comune, ognuno di noi può scegliere parole e costruzioni più o meno locali, più o meno generalizzate, più o meno formali. Tuttavia, le scelte linguistiche che ognuno opera non possono avvenire a capriccio. Non si può parlare allo stesso modo a chiunque ed in ogni occasione. Ognuno di noi usa un linguaggio diverso a seconda che parli con un bambino o con un adulto, un superiore o un subalterno, ed a seconda dell'ambiente in cui si trova. Nessuno mai si sognerebbe di dire a un parente a casa propria "La prego di spostarsi un po'

più a destra perché così mi risulta impossibile vedere il teleschermo" - se non per raggiungere determinati effetti comici. Allo stesso modo è poco probabile ascoltare frasi come "Ora mi hai proprio rotto le scatole" nell'ambito di una riunione di affari tra persone che non si conoscono - se non allo scopo di troncare ogni relazione con il nostro interlocutore o nell'ambito del racconto di un aneddoto o di una barzelletta.

La lingua è dunque costituita da un insieme di varietà particolari che mutano in funzione dell'argomento, del destinatario, dello scopo e della situazione comunicativa in cui ci si trova a interloquire. Pertanto, saper parlare non significa uniformarsi ad un unico modello linguistico, ma conoscere e padroneggiare un'ampia gamma di varietà e registri per potersi di volta in volta destreggiare nelle più diverse situazioni.

Il nostro obiettivo non deve essere il "parlare come un libro stampato", ma piuttosto il parlare in modo da esprimere al meglio le nostre intenzioni comunicative a seconda della circostanza: parlare con gli amici al bar, conversare a tavola, difendere un'opinione, intervenire in un dibattito, rispondere a delle domande dopo una locuzione. Per fare questo bisogna abituarsi a riconoscere i vari ruoli sociali che di volta in volta assumiamo (padre, fratello, amico, docente, collega, superiore, cliente, subalterno). Solo a partire da questi presupposti sarà possibile individuare le forme linguistiche adeguate alla realtà data. Non si tratta di un semplice atteggiamento conservatore teso a

congelare le relazioni interpersonali e ruoli dati. Solo chi

riconosce ruoli e rapporti può trascenderli e tentare di apportare modifiche alle convenzioni sociali. Si tratta, insomma, di adeguare i propri concetti e argomenti per renderli convincenti, più che di modificare le proprie idee per adeguarsi agli ascoltatori.

Ma le varietà della lingua non si fermano qui. Per certi argomenti esistono dei sottocodici tecnici con delle caratteristiche del tutto peculiari rispetto al sistema linguistico comune. Si tratta di linguaggi settoriali a disposizione degli esperti o dei conoscitori di una determinata materia per parlare tra loro. Ciascuno di questi sottocodici presenta un determinato numero di parole particolari che non hanno un equivalente nella lingua ordinaria. Se per esempio facciamo riferimento al sotto-codice usato dai medici quando parlano del proprio lavoro, notiamo che a parole generiche della lingua comune corrispondono parole più precise e spesso più numerose: un indistinto mal di gola diventa nel sottocodice medico una faringite, una laringite, una tonsillite o un'angina; mentre un mal di fegato sarà diagnosticato come un itteroepatite, una cirrosi, un'insufficienza epatica o una calcolosi. Inoltre, anche nel sottocodice medico sono presenti delle parole che non si ritrovano nella lingua comune, perché trattano di oggetti o di operazioni con cui - per fortuna - non abbiamo a che fare nella vita di tutti i giorni, come sfigmomanometri, stetoscopi, sulfamidici, ortopantomografie e otoscopi.

Ovviamente esistono numerosi sottocodici, perché numerosi sono i campi di attività dell'uomo. Economia, agronomia, architettura, cinema, falegnameria, tipografia, sport, burocrazia, pubblicità, ognuna di queste materie possiede il suo sottocodice.

Ma nessun sottocodice è autosufficiente. Le parole tipiche di un determinato sottocodice si trovano sempre frammiste con parole e costruzioni della lingua comune. Inoltre, ogni sottocodice può essere usato a un livello alto, incomprensibile ai profani, o in un modo più divulgativo. E quanti più sottocodici sapremo usare, almeno a livello basso-divulgativo, tanto più sarà semplice padroneggiare le diverse situazioni, rappresentare la complessità del reale e capire le rappresentazioni altrui.

Tutto ciò conferma che non è possibile usare la stessa varietà di lingua in qualsiasi circostanza. A seconda di ciò di cui dobbiamo parlare, dobbiamo usare i mezzi linguistici adatti. Non possiamo discorrere con proprietà della medicina, dell'architettura o della musica, senza fare uso delle parole e delle espressioni che ci mettono a disposizione i sottocodici relativi. Ma allo stesso tempo sarebbe fuori luogo spiegare ad un bambino a cosa servono i soldi usando il sottocodice dell'economia, o discorrere in famiglia di avvenimenti quotidiani usando lo stile e le espressioni della burocrazia! Pensate a un marito che rivolgendosi alla moglie le dicesse "Io sottoscritto Rossi Amilcare desidererei effettuare la cena con cortese sollecitudine. La prego approntare il pasto senza ulteriori ritardi. In fede, il suo congiunto Amilcare Rossi".

La lingua, in definitiva, ci mette a disposizione una gamma di risorse, che ci permettono di parlare di diversi argomenti, con diverse persone e in differenti situazioni, e con toni o atteggiamenti differenti. Sembra importante tenerne conto, sia per scegliere i mezzi linguistici adatti ai discorsi che si intendono realizzare; sia per comprendere e valutare i discorsi che ci vengono rivolti. Perché alla fin fine il punto della questione resta sempre lo stesso: capire e farsi capire.

 

II.1.4. SAPER ASCOLTARE

Per comunicare in modo appropriato ed efficiente, non basta essere dei buoni parlatori. Bisogna anche saper ascoltare, capire e valutare le affermazioni altrui.

L' ascolto non è un'attività secondaria, né passiva. Per la maggior parte delle persone ascoltare è attendere il momento buono per ricominciare a parlare. E invece bisognerebbe essere tremendamente attivi: bisognerebbe assumere una posizione di disponibilità verso l'altro; perché, come ben sanno i buoni intervistatori, più profondamente si ascolta, più eloquentemente la gente parla. Ma nello stesso tempo dovremmo essere vigili, attenti a capire le scelte linguistiche e le intenzioni del parlante, pronti a confrontare le opinioni degli altri con le nostre e ad individuare ragioni e punti deboli dei nostri interlocutori.

Non dimentichiamo che ogni comunicazione ha un suo scopo che sta a noi riconoscere. Chi ci parla ha sempre un'intenzione. Può volerci informare, commuovere, persuadere, provocare o scuotere. Può fingere di informarci prefiggendosi invece lo scopo di convincerci o fingere di farci una domanda volendo invece affermare qualcosa. Sta a noi valutare. E magari essere pronti ad accogliere con riserva i messaggi dei nostri interlocutori. Non bisogna accontentarsi dell'aspetto esteriore di un messaggio, ma scavarne gli scopi per scegliere se e quando adeguarsi alle richieste in esso contenute.

Se per esempio un bellimbusto ferma una signorina e le chiede "Scusi, può dirmi l'ora?", noi possiamo ipotizzare che il

giovane ha veramente bisogno di sapere l'ora perché non ha l'orologio. Ma può anche essere che non gli importi nulla di sapere che ora è. Il suo scopo reale può essere quello di avviare una conversazione, e il suo fine ultimo quello di fare la conoscenza della ragazza, avviare una relazione personale e magari portarsela a letto.

 A questo punto dovrebbe essere chiaro che è possibile piegare la lingua alle più particolari esigenze comunicative, rendendola adatta al destinatario del nostro messaggio, allo scopo che con esso ci prefiggiamo di raggiungere, alla circostanza in cui ci troviamo a comunicare ed al particolare argomento che trattiamo. E dovrebbe essere altrettanto chiaro che questa possibilità si offre tanto a noi quanto al nostro interlocutore. Per cui riflettere sulle potenzialità e sulla varietà della lingua ci servirà sia per capire che per farci capire, e magari potrà tornarci utile anche per parare eventuali colpi bassi di chi manipola le parole per il suo tornaconto. Insomma, imparare l'arte è anche un modo per non lasciarsi abbindolare dagli artisti più scaltri.

 

II.2.1. LE FORME DELLA COMUNICAZIONE

Vediamo ora le diverse forme che la comunicazione interpersonale può assumere in situazioni pubbliche.

Eviteremo di soffermarci sugli scambi di messaggi che avvengono su un piano più privato (come la confidenza o la chiacchierata tra amici), in quanto non pertinenti allo specifico del nostro discorso. E ovviamente non tratteremo neanche della comunicazione unidirezionale del tipo conferenza o relazione, in quanto essa è stata oggetto del nostro precedente intervento.

Ci soffermeremo, invece, sugli scambi comunicativi verbali che si realizzano tra due o più persone su un piano più o meno formale e paritario.

In particolare, i tipi di scambio che analizzeremo vanno dal colloquio, solitamente svolto tra due soli soggetti, al talk show, attuato da un gruppo limitato di persone e rivolto ad un pubblico più o meno vasto.

Il COLLOQUIO si svolge in genere tra due persone su un argomento preciso, delimitato, di comune interesse. Spesso si parla di colloquio per indicare prove orali universitarie o esami per la selezione del personale. Ovviamente, in questi casi i ruoli non sono paritari e chi occupa l'incarico più elevato dovrebbe facilitare la persona con cui parla:

- riprendendo frasi o concetti dell'altra persona, per invitarla a continuare o ad approfondire ciò che ha detto;

- parafrasando i discorsi dell'interlocutore per controllare che ci si sta comprendendo bene;

- dimostrando che si accettano le opinioni dell'altro per quanto divergenti dalle nostre.

La CONVERSAZIONE è uno scambio sereno di notizie, impressioni, sentimenti, informazioni tra due o più persone. Nella conversazione non c'è un argomento rigido cui attenersi né alcuna direzione esterna. Il modo di parlare è libero e informale; non ci si pongono problemi grammaticali o sintattici, si passa dalla parola al gesto, si salta da un discorso all'altro senza alcun ordine, si lasciano frasi in sospeso, si interrompe chi ha la parola.

La DISCUSSIONE, invece, si focalizza su un solo argomento con lo scopo preciso di giungere ad una decisione. Generalmente, la discussione verte intorno all'esame approfondito di una questione da parte di due o più persone. Le regole sono più formali che nella conversazione. Chi vuol parlare chiede la parola e aspetta il suo turno. La propria opinione è sempre posta a confronto con quella degli altri e quindi deve essere espressa in modo chiaro, sintetico e comprensibile. Per non rischiare di rimanere incompresi, bisogna evitare di lasciare cose non spiegate o non dette. Infine, bisogna ascoltare con attenzione il proprio interlocutore per cogliere le ragioni e i punti deboli della sua argomentazione.

Il DIBATTITO è una discussione molto formale e incentrata su un argomento molto preciso, alla quale prendono parte tutti i componenti di un'assemblea, di una seduta, di una riunione pubblica o privata. Il dibattito è solitamente regolato da un moderatore che dà e toglie la parola. Dopo aver valutato le diverse idee e opinioni dei partecipanti, un dibattito dovrebbe concludersi con una decisione finale: l'elezione di un incaricato, la votazione di una proposta, l'approvazione di un regolamento, la promulgazione di una legge...

L'INTERVISTA è un particolare tipo di scambio, in cui si hanno ruoli fissi tra i parlanti: l'intervistatore pone le domande, per conoscere elementi, dati, notizie, opinioni; e l'intervistato risponde sulla base delle sue conoscenze e impressioni.

La TAVOLA ROTONDA è la forma più tipica di dibattito pubblico fra esperti. Molto rilievo assume la figura del moderatore, che introduce l'argomento, presenta i relatori, precisa le modalità di svolgimento, sintetizza i punti di convergenza e i problemi rimasti in sospeso. I relatori si basano per lo più su scritti o scalette preparate prima dell'intervento. La tavola rotonda può essere destinata all'ascolto di un pubblico, che non può intervenire direttamente, ma può dimostrare la sua approvazione o disapprovazione con applausi, fischi, sbadigli e colpi di tosse.

Il TALK-SHOW è una conversazione o un dibattito destinato all'ascolto di un pubblico, che può essere presente in sala o distante nel tempo e nello spazio ma raggiungibile attraverso le onde o i cavi radio-televisivi. Ovvero, come nel famigerato caso del Maurizio Costanzo Show, possono assommarsi i due tipi di pubblico, così che gli interlocutori al tempo stesso parlano tra di loro, interloquiscono con il loro moderatore/presentatore, e si rivolgono sia al pubblico presente in sala che a quello seduto nelle poltrone delle proprie case. E' la vera apoteosi dello scambio interpersonale al cospetto di un pubblico. E proprio per questo finisce per assumere qualità eccessive e marcate, trasformando la comunicazione in teatralità.

Questi, dunque, alcuni dei modi e delle forme in cui si esplica la scambio verbale interpersonale in situazioni più o meno quotidiane, alle soglie del ventunesimo secolo. Ma a questi modi che sono a tutti ben noti va affiancato un tipico strumento di esercitazione dialettica usato nella retorica classica ed oggi caduto in disuso: la controversia.

La CONTROVERSIA è uno strumento di esercitazione retorica in cui due interlocutori, a turno, espongono i propri argomenti e considerazioni intorno a un problema, confutando quelli dell'altro. Si tratta per lo più di questioni futili o oziose, come stabilire il sesso degli angeli, disputare sulla superiorità dei gatti sui cani o dei cani sui gatti, elogiare o denigrare la funzione del macinacaffè per la società contemporanea.

E' facile intuire che qui, più che il contenuto della controversia, importa l'addestramento alla ricerca dei modi e delle forme più idonee per dibattere e controbattere un avversario dialettico.

Per essere più efficaci, è consigliabile prepararsi gli argomenti a favore della propria tesi ed esercitarsi a prevedere gli argomenti altrui per approntarsi a toglier loro consistenza durante la disputa.

Se per esempio in una controversia ci toccasse difendere l'asino contro i suoi molti denigratori, dovremmo raccogliere le sue qualità positive - il fatto che l'asino è mite, docile, paziente e utile - e prepararci a confutare i luoghi comuni che presumibilmente useranno i nostri avversari - l'asino è stupido, è l'animale stupido per antonomasia, una metafora della stupidità umana. Dovremmo poi prepararci a controbattere le probabili argomentazioni del nostro interlocutore: diremo, per esempio, che l'asino non è affatto stupido, la sua naturale intelligenza è dimostrata dal fatto che è l'unico animale che avverte immediatamente quando sta superando la soglia della fatica sopportabile e si ferma. Per suffragare la nostra difesa potremo ricorrere a qualche citazione - qui cade a pennello la poesia di Trilussa: "Forza, padrone, spaccami la groppa / non hai capito che la soma è troppa? / Se non capisci ciò che capisco io / chi di noi due è l'asino tu o io" - o potremo citare aneddoti o memorie più o meno veritiere - "io conoscevo un asino che sapeva fare le addizioni, le sottrazioni e tirar di scherma...".

 

II.2.2. CONSIGLI E STRATAGEMMI

E' ovvio che non esiste un modo unico e valido in tutte le circostanze per condurre uno scambio verbale. La natura stessa della comunicazione interpersonale, così spontanea e imprevedibile, impedisce la formulazione di regole certe e universali. Vale comunque la pena di suggerire qualche raccomandazione e qualche tecnica che, se non altro, può pur sempre servire come spunto di riflessione sui modi attuati da noi e dai nostri interlocutori per avvalorare i nostri argomenti.

- Nei limiti del possibile, predisponiamoci agli scambi verbali preparando note, appunti e scalette sulle cose da dire. Tanto più se dovremo parlare in situazioni pubbliche e formali.

- Adeguiamo il nostro intervento al destinatario del nostro messaggio, alla situazione, al contesto ed allo scopo che ci prefiggiamo.

- Ascoltiamo con attenzione e partecipazione il nostro interlocutore. Esaminiamo le sue argomentazioni. Mostriamo approvazione per le sue buone ragioni e confutiamolo dove ci pare che abbia torto. Riflettiamo sui punti deboli della sua locuzione.

- Addestriamoci a capire gli scopi reconditi di chi ci parla.

- Se ci formulano domande lunghe e complicate, non perdiamoci d'animo. Sarà facile evitare di rispondere usando un linguaggio altrettanto confuso e complicato o concentrandoci sulla parte della domanda che ci sembra più abbordabile.

- Se il nostro interlocutore ci risponde a una domanda con un'altra domanda, insistiamo nella stessa direzione. Molto probabilmente chi ci sta parlando è in difficoltà e cerca di sfuggire eludendo le nostre richieste.

- Non fingiamo di aver capito. Se qualcosa non ci risulta chiara chiediamo chiarimenti. Chi ascolta ha il diritto di capire e chi parla ha il dovere di farsi capire.

Per concludere, citiamo alcuni degli stratagemmi catalogati da Schopenhauer per convincere l'interlocutore sulla validità delle nostre tesi ed ottenere ragione. Sono artifici onesti o disonesti, ma pur sempre utili da conoscere; non fosse altro che per parare eventuali colpi bassi dell'avversario.

Per Schopenhauer, l'arte dialettica non deve preoccuparsi di stabilire da che parte sta la verità: "alla stessa stregua del maestro di scherma, che non considera chi abbia effettivamente ragione nella contesa che ha dato origine al duello: colpire e parare, questo è quello che conta. (...) In questo senso, la dialettica deve semplicemente essere una ricapitolazione ed esposizione, ricondotta a un sistema e a regole, di quelle tecniche suggerite dalla natura, di cui la maggior parte della gente, quando nella contesa si accorge che la verità non sta dalla sua, si serve per ottenere ugualmente ragione. (...) Il compito principale della dialettica scientifica, così come lo intendiamo noi,

è perciò quello di presentare e analizzare gli stratagemmi della slealtà nel disputare, affinché nelle dispute reali li si riconosca e li si annienti subito." (Arthur Schopenhauer, L'arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi, pp.25-6).

Senza addentrarci ulteriormente nella questione etico-filosofica di che cosa sia e che cosa debba essere la dialettica, esaminiano subito qualcuno degli stratagemmi suggeriti da Schopenhauer.

In un primo gruppo di stratagemmi [nn. 1, 2, 3, 24], si suggerisce di snaturare le affermazioni dell'avversario facendogli dire ciò che non ha detto, ma che a noi risulta utile fingere di aver capito. Così si può portare l'affermazione dell'interlocutore al di fuori dei suoi limiti naturali ed interpretarla nella maniera più generale possibile; perché quanto più un'affermazione diventa generale, tanto più essa presta il fianco ad attacchi. E' come se ci dicessero "A me Woody Allen non piace" e noi rispondessimo "Chi non ama il cinema comino o è un povero di spirito o un cretino". Oppure si può giocare sull'omonimia "per estendere l'affermazione presentata anche a ciò che, al di là del nome uguale, poco o nulla ha in comune con la cosa in questione; poi darne una confutazione lampante e così fingere di aver confutato l'affermazione.

Esempio:

A: "Lei non è ancora iniziato ai misteri della filosofia kantiana".

B: "Ah, dove ci sono misteri, io non voglio saperne nulla"." (pp.31-3)

Nello stratagemma n.4, poi, si consiglia di presentare le nostre premesse in ordine sparso, così che per l'avversario sia più difficile prendere delle contromisure da opporre alle nostre

argomentazioni. Invece, negli stratagemmi 18 e 29 si raccomanda di interrompere, allontanare o sviare l'avversario o creare una diversione quando ci si accorge che si sta per essere battuti; in breve, si tratta di avviare una mutatio controversiae.

Inoltre, nel corso del suo trattato, Schopenhauer ci consiglia più di una volta di adeguarci al nostro interlocutore [nn. 5, 16, 35] fino al punto di confutare le sue tesi false "per mezzo di altre tesi false, che egli però ritiene vere (...). Per esempio: se egli è seguace di qualche setta alla quale noi non aderiamo possiamo adoperare contro di lui, come principia, le massime di questa setta" (op. cit., p.37). Allo steso modo, dobbiamo cercare se le sue affermazioni non sembrino in contraddizione con la setta di cui è seguace o simpatizzante, con quanto ha affermato in precedenza o con il suo stesso comportamento. "Se per esempio egli difende il suicidio, allora gli si grida subito "Perché non ti impicchi?"" (op. cit., p.43).

In diversi stratagemmi [nn. 8, 23, 27, 38], è contenuto il suggerimento di suscitare l'ira dell'avversario, stuzzicarlo all'esagerazione, farlo montare in collera e persino oltraggiarlo, perché nella rabbia "egli non è più in condizione di giudicare rettamente e di percepire il proprio vantaggio" (op. cit, p.38).

Altrove [nn. 12 e 13] sono contenuti consigli di tipo più strettamente retorico, come scegliere parole che siano già di per se favorevoli a quanto dobbiamo provare (se per esempio dovremmo parlar male dei seguaci di una religione useremo la denominazione "fanatismo", piuttosto che l'espressione "fervore religioso") o formulare delle classiche domande retoriche.

"Un tiro brillante [n. 26] è la retorsio argumenti: quando l'argomento che l'avversario vuole usare a proprio vantaggio può essere usato meglio contro di lui. Per esempio egli dice: "E' un bambino, bisogna pur concedergli qualcosa"; retorsio: "Proprio perché è un bambino bisogna castigarlo, affinché non perseveri nelle sue cattive abitudini"" (op. cit., p.48).

Un altro modo [n.32] per accantonare, o almeno rendere sospetta, un'affermazione dell'avversario "è quello di ricondurlo a una categoria odiata, anche se la relazione è di vaga somiglianza o è tirata per i capelli; per esempio: "Questo è manicheismo; questo è arianesimo; (...), questo è ateismo; questo è razionalismo; questo è spiritualismo; questo è misticismo"" (op. cit., p.58). Ma più probabilmente oggi, nel ventesimo secolo, si direbbe "questo è fascismo; questo è nazismo; questo è stalinismo". Con ciò otteniamo due obiettivi: 1) sviliamo l' affermazione dell'avversario dimostrando che non è affatto nuova; 2) confutiamo l'affermazione perché supponiamo già confutata la categoria nella quale l'abbiamo a forza o a ragione inclusa.

Per le situazioni in cui ci troviamo a disputare con persone colte "davanti ad ascoltatori incolti" [nn. 28 e 31], Schopenhauer consiglia di non farsi scrupolo di avanzare obiezioni non valide, di cui però solo un esperto vede l'inconsistenza. Se poi riusciamo anche a far ridere gli ascoltatori ridicolizzando il nostro avversario, tanto di guadagnato. Il nostro rivale dialettico cercherà invano di dimostrare le sue buone ragioni inoltrandosi in lunghe e cavillose disquisizioni; il pubblico ormai non sarà più disposto a seguirlo. E noi potremo infierire dichiarandoci, con fine ironia, incompetenti in materia: "Quello che lei dice supera la mia debole comprensione: sarà senz'altro giustissimo, ma io non riesco a capirlo e rinuncio a ogni giudizio". (op. cit., p.57). Con ciò, negli uditori presso i quali si è tenuti in considerazione, si insinua ancora una volta che si tratta di una cosa insensata.

Altre volte potremmo difenderci con dei semplici sofismi, tipo: "Ciò sarà anche vero in teoria; in pratica però è falso" [n. 33].

Infine, in certe occasioni, al posto delle motivazioni ci si può servire dell'autorità proveniente da una qualche citazione colta o da qualche dotto sproloquio privo di senso [nn. 30 e 36]. E se non si trova alcuna citazione che faccia al caso, se ne prenda pure una adatta solo in apparenza.

Le autorità che l'avversario non capisce affatto per lo più producono l'effetto migliore: gli incolti hanno un rispetto tutto particolare per l'espressioni greche o latine. All'occorrenza, le autorità si possono non solo distorcere, ma addirittura falsificare o perfino inventare: per lo più l'avversario non ha il libro a portata di mano e non sa nemmeno come consultarlo. Il più bell'esempio a questo proposito è offerto dal francese Curé, il quale, per non pavimentare la strada davanti alla sua casa, come erano obbligati a fare gli altri cittadini, citò un detto biblico: paveant illi, ego non pavebo [tremino pur quelli, io non tremerò]. Ciò convinse gli amministratori comunali. (p.53)

Ma attenzione, non tutti gli amministratori comunali ignorano il latino. E non è detto che quelli che l'ignorano siano disposti a farsi impressionare da quattro o cinque parole latine messe una dietro l'altra in modo più o meno corretto. Questo e tutti gli altri trucchetti suggeriti da Schopenhauer sarebbe opportuno usarli per difendersi, piuttosto che per offendere. Sapere che esistono questi e mille altri stratagemmi leciti ed illeciti, dovrebbe servirci per disarmare gli avversari più sleali, piuttosto che per argomentare da cialtroni. Noi, da parte nostra, non ci stancheremo mai di raccomandare l'uso delle armi bianche della chiarezza, dell'efficacia e della pertinenza all'oggetto del nostro discorso; per comunicare, più che per offendere.

 

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Gaetano Vergara, 1985-99 © All rights reserved

 

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